Un fiume di ricordi

Quando ho sentito bussare alla porta, sono rimasta stupita. Erano mesi o forse anni che nessuno lo faceva, tanto meno mi sarei immaginata di trovare, una volta aperto, due occhietti neri, curiosi e pungenti.
Quando mi hai salutato con quel “Buongiorno” squillante, ho pure pensato che fossi la solita scocciatrice in cerca dell’ennesima anzianotta da raggirare, ma ancora ci sto bene con la testa e ho sempre il bastone con me, non si sa mai.
In realtà mi hai chiesto solo informazioni su un vecchio mulino della zona, un mulino di quelli ad acqua, come si vedono nelle illustrazioni delle migliori storie per bambini. In un attimo la mia testa è tornata a quella ruota, al suo rumore, allo scorrere del fiume, all’attrito delle macine di pietra ed alla faccia di mio marito mugnaio, sporca di bianco.
Quindi, facendo il punto, tu sei una giovane universitaria intenta a fare una ricerca sui “mestieri perduti” e io sono una sorta di piccola enciclopedia fatta di ricordi; forse, nonostante la mia età, potremmo pure arrivare a delle conclusioni interessanti, visto che ancora non sono proprio decrepita e la mia testa, come dicevo prima, regge ancora.

Mi sarebbe piaciuto che tu parlassi con mio marito, lui era quello che poteva svelarti i segreti di un mestiere ormai scomparso, ma purtroppo non c’è più. In realtà forse non c’era più da tempo, da tanto, troppo tempo; potrei sostenere di essere rimasta vedova giovanissima e non direi poi nulla di così osceno.
Lo so che non mi capisci, lo vedo dai tuoi occhietti che diventano sempre più piccoli e pungenti, ma il punto è che ogni luogo ha una storia che si intreccia con quella di chi lo abita. La nostra storia è stata meravigliosa e tremenda allo stesso tempo. Non so se hai la pazienza di ascoltarmi, non vorrei fare la parte della vecchia brontolona nostalgica, sai di quelle che ripetono sempre le stesse cose, ma in realtà forse questa è la prima volta che mi sento di raccontare come è andata veramente.

Il mulino che tu cerchi, era proprio qui, in questa casa. Le macine ed il meccanismo erano al piano di sotto, e qua fuori c’era il canale con cui veniva deviata l’acqua del fiume, per far funzionare la ruota. Era immensa, tutta di legno e ha fatto il suo dovere per molti anni, sempre accudita da mio marito.
Era il primo dopoguerra, ed io ero diventata la moglie del mugnaio ribelle, mio marito infatti era considerato un po’ strambo, perché nonostante le origini nobili, aveva deciso di lasciare tutto ed essere diseredato dalla famiglia, piuttosto che doversi assoggettare a quelle che per lui, erano delle regole assurde. Il padre lo considerava un reietto, la madre non ne parliamo, solo la sorella di tanto in tanto, di nascosto, lo veniva a trovare. Poco male, nessuno di loro era poi così simpatico, te lo posso garantire. Anche io comunque, avevo avuto qualche difficoltà a potermi sposare con lui. I miei genitori erano contrari e i mie tre fratelli fecero il diavolo a quattro per potermi evitare un dolore, dicevano loro. Forse, col senno di poi, mi sento di dire che avevano ragione, ma è anche vero che forse non si può andare contro al proprio destino, mi ero incapricciata col mugnaio e sua moglie diventai.

Tornando al nostro mulino, posso dirti che qui la zona era molto diversa da come la vedi ora. Non c’era la strada asfaltata no, si poteva arrivare attraversando un ponticello in cui passava a pelo un carro tirato da due buoi. Poi ovviamente c’era chi arrivava coi sacchi caricati sull’asino o addirittura tirando in due o tre un carrettino. Le famiglie all’epoca non avevano molte risorse, le uniche cose che c’erano in abbondanza erano la miseria e le bocche da sfamare. Avevamo costruito un piccolo pergolato, per far ristorare la gente che arrivava e che sarebbe ripartita solo una volta finita la macinatura. Mio marito era abile e veloce anche se a volte i suoi modi lasciavano a desiderare. Passava dalla scontrosità del mattino, all’affabilità e voglia di scherzare del pomeriggio e la gente che arrivava a volte se la prendeva un po’. Fortunatamente il mulino più vicino al nostro era parecchio lontano e nolenti o piacenti, i clienti non ci mancavano.
Ti chiederai se eravamo soli, considerando come erano numerose le famiglie all’epoca. Siamo stati soli e poi è arrivato un figlio, un maschio che ha fatto diventare mio marito luminoso e amorevole, penso che avrebbe dato la sua vita pur di farlo star bene. Erano sempre attaccati, se lo portava dappertutto e dal ponticello sopra il fiume, andavano a fare i tuffi nella gorga sottostante. Io avevo una paura, che se ci penso ancora oggi mi vengono i brividi, ma quei due erano come i cervi che ancora oggi pascolano qui dietro, erano liberi. Abbiamo sempre vissuto in questa sorta di paradiso, coi piedi piantati su una terra meravigliosa, piena di natura e così vicina alla felicità, attraversata da questo fiume, che non è poi così diverso oggi da allora. Sai ho sentito alla televisione che l’acqua è considerata divina, dà la vita dicevano, io non so se sia vero, ma sicuramente so che scorre e che non è mai uguale a se stessa. Scorre e non si può fermare, proprio come il tempo che è passato ed oggi mi vede qui con te, a raccontare qualcosa che non c’è più.

Dicevamo del mulino, scusami ma ogni tanto mi viene da prendere una via traversa nel discorso. Ecco le macine erano di pietra ed erano scalpellate a mano. Ad ogni fine stagione mio marito le ripassava in modo che l’anno dopo potessero lavorare al meglio. Poi c’era il buratto che serviva a raffinare la farina e tanti altri arnesi che io non ti saprei nemmeno nominare. All’inizio io stavo al mulino, ma dopo la nascita del figliolo mi sono dedicata a lui. Quanto gli volevamo bene!
Parlo al passato sì, perché io adesso sono sola. Mio figlio aveva qualcosa di strano, ha iniziato verso i dieci anni ad avere dei problemi. La prima volta che capitò eravamo io e lui e non sapevo cosa fare. Iniziò a tremare, strabuzzando gli occhi cadde per terra e sembrava soffocare. Ho urlato, ho pianto, ero disperata. Mio marito arrivò di corsa, tutto bianco di farina e cercò di tenerlo fermo per non farlo sbattere o ferire, poi tutto passò.

Mettendo da parte l’orgoglio, il mio povero marito rispolverò tutte le sue vecchie conoscenze ed amicizie, per poter venire a capo di qualcosa, per capire l’origine del male del ragazzo. Un giorno un medico ci spiegò e io che non avevo capito niente, riuscii solo a comprendere che si trattava di qualcosa di male. Mio marito si prese la testa fra le mani alle parole del medico, poi usciti dalla stanza, ci prese tutti e due per mano e ci riportò a casa. Nei giorni seguenti non faceva altro che raccomandarsi col ragazzino di non allontanarsi e di rimanere sempre nei paraggi dove lo potevamo vedere. Quel poveretto crebbe i successivi quattro anni immerso nei nostri angosciosi pensieri, senza sapere cosa gli stava succedendo. Era epilettico, soffriva di una forma grave, che nessun farmaco era stato in grado di tenere a freno.

Il ragazzo andava a scuola regolarmente, accompagnato a piedi da altri compagni, poi quando tornava, andava ad aiutare il padre al mulino. Era felice quando erano insieme, gli occhi brillavano ad entrambi. D’estate il padre non lo portava più a fare i tuffi dal ponticello, si era inventato che il livello dell’acqua era diminuito e si sarebbero potuti fare male, ma in realtà aveva solo paura. Anzi ti dirò che gli aveva proprio vietato di fare anche solo il bagno con gli amici e lui iniziò a pensare che tutti quei no e quelle imposizioni, fossero ingiusti castighi per qualcosa di male che non aveva fatto. Soffriva e diventava sempre più insofferente.
Un pomeriggio d’estate disse al padre che sarebbe andato da un vicino, in casa di un suo compagno di scuola, per aiutarlo a caricare i sacchi di grano da portare al mulino. Quando capimmo che era una scusa, era ormai troppo tardi. Era annegato e mio marito lo ritrovò qualche centinaio di metri più a valle, trattenuto da un ramo di acacia. Aveva solo quattordici anni.

In un colpo solo io ho perso la vita, un figlio e mio marito, che reagì nel modo più assurdo che poté. Iniziò ad essere veramente pazzo, mandava via i clienti imbracciando il fucile, stava giornate intere oziando steso per terra senza mangiare né bere, si buttava nel fiume anche nei mesi successivi, in pieno inverno e urlava e piangeva, io lo sentivo che anche di notte piangeva, senza darsi pace. Un giorno iniziò a prendere a martellate la ruota del mulino, ne spaccò una parte e da quel momento finì di sgretolarsi anche quel poco che era rimasto. Io non potevo fare altro che guardare ed aspettare, non potevo aiutarlo in alcun modo, perché prima dovevo capire come aiutare me stessa.

Scusami tesoro, forse ho esagerato, mi sono fatta prendere la mano dalla mia storia e ho perso di vista il mulino. Forse però avrai altri dieci minuti per ascoltare come è finita, perché non è ancora finita.
Il mulino era perso, il lavoro era finito, eravamo nell’indigenza più totale e un giorno mio marito, avvicinandosi mi abbracciò, e mi strinse forte per le spalle. Baciandomi sulla guancia mi chiese scusa per non esserci più stato, mi voleva ancora bene! Forse potevo sperare di ricominciare, potevamo dimenticare.
Un mese dopo scoprii di essere in cinta. Sarebbe stata una gioia ma poteva essere di nuovo l’inizio di un incubo. Non dissi niente a nessuno ed iniziai a fare i peggior lavori, sforzandomi di faticare più che potevo. Avrai capito cosa ti voglio dire, dove volevo arrivare e capirai anche, che ci sono riuscita.
Qualche settimana dopo, un pomeriggio di gennaio, a piedi nudi tra la neve, stavo lavando i panni al fiume, un dolore lancinante, tanto sangue che tinse l’acqua e poi non ricordo più niente. Mi sono risvegliata in casa, febbricitante, in sottofondo, dall’altra stanza, il brusio delle voci del medico e mio marito. Pensando di fare bene, avevo solo segnato irrimediabilmente le nostre vite.

Quindi come vedi, il mulino di per sé, sarebbe stato qualcosa di inanimato e non avrebbe una gran storia se non fosse stato per le azioni di questa povera vecchia e di tutti gli altri, naturalmente.
Tutti siamo stati felici ed abbiamo sofferto in questa terra, vicino a questo fiume che ci ha insegnato che nulla è per sempre, che tutto se ne va e si trasforma, sia i momenti belli che quelli brutti.

La storia del vecchio mulino è tutta qui.

(Ha partecipato e vinto al Concorso letterario "Tra terra e acqua" indetto da La Nuova Briantea con sede a Lecco)

Articoli on-line relativi al racconto
Ed ecco i due racconti migliori del concorso “Tra terra e acqua”

“Un fiume di ricordi” di Roberta Baldantoni raccoglie consensi al nostro concorso di narrativa

In tutti i tuoi nomi

La vita è breve, ma lungo è il cammino,
e il mio cuore oggi, sembra quello di un bambino
affascinato dal mondo, a volte sconcertato,
ma che oggi si sente leggero, perché in te è rinato.

Spesso non ti ho creduto, spesso non ti ho considerato,
ma oggi che rinasco, capisco che infondo ti ho sempre cercato.
Sei sempre stato lì e in silenzio mi guardavi,
sperando che un giorno capissi, e tendessi verso te le mie mani.

Sei stato come un faro, che mi ha sempre illuminato,
mi hai sempre pazientemente aspettato,
di giorno, di notte, con la bonaccia o con  il mare dei miei pensieri in tempesta,
tu sempre eri là che mi guardavi, senza mai una protesta.

Mi sentivo capace di camminare solitario,
senza te, che l’unica cosa che facevi, era guardarmi bonario.
Poi un giorno ho capito, forse una folgorazione,
dopo quell’evento nefasto che mi ha fatto da sprone.

E ti ho visto ancora lì, dolce, su quello scoglio
e mi son sentito piccolo e solo pieno di stupido orgoglio.
Avvicinarmi a te non è un gioco,
sto ancora superando dure prove, ma sempre ti invoco.

Certo, ti chiamo, perché sempre risposta c’è
sempre, anche quando a volte vacillo e mi sembra che tu non sia più con me,
Ma tu ci sei, ci sarai come ci sei sempre stato,
e la tua forza è di non farmi mai sentire giudicato,

perché non mi imponi di vivere la vita come vuoi tu,
ma mi lasci libero di scegliere, e ancor di più
di sbagliare e cadere e capire e ricominciare,

in questo grande amore, che è la vita che mi hai voluto dare.

(Ha partecipato al Premio Letterario Internazionale "Verba volant, scripta manent" online per poesia, casa editrice Verbaniana. Edizione I)

Non ti ricorderò mai più

La Sig.na Bezzy, risalì sullo skate magnetico, per continuare il giro del museo, “…alla vostra destra un arcaico veicolo di locomozione, definito automobile. Purtroppo non so darvi altre info ragazzi, il mio memoryhat non ne ha al riguardo…”.
Non so perché, avevo visto e studiato molti mondi di quel sistema solare, tutti finiti allo stesso modo, distrutti; qui però provavo una strana sensazione, che non riuscivo a spiegarmi e che mi provocava un gran senso di angoscia.
Mi avvicinai alla Sig.na Bezzy, glielo feci presente. Lei, come sempre, pacata da far saltare i nervi anche ad un umanoide scemo, mi rispose di stare tranquilla. Tornati alla Duster1, la nostra nave-scuola, mi portò in infermeria, dove SayDoc, il medico olografico, mi scansionò e scosse la testa.
Iniziavo a preoccuparmi, ma dopo le seconda iniettata di Amnèsia liquida, stavo già meglio. Erano solo il riaffiorare nella mia mente, del mio salvataggio e della successiva ibernazione, avvenuti circa 550 anni prima, su Terra.


(Temi: Anno 2581 e Amnesia - Max 1000 caratteri)

L'abbraccio del mare

La dolce brezza mi coccola il viso,
e monella, si beffa del mio vestito.
Ogni dì, alba e tramonto mi strappano un sorriso,
e ripenso a lui, a quando è partito.

I miei occhi si perdono nei tuoi orizzonti lontani,
nei tuoi verdi, nei tuoi blu, nei garriti dei gabbiani.
In bonaccia porti e dai la vita,
ma in tempesta spesso, la speranza vedo sparita.

Sulle tue spiagge passeggio ogni giorno,
lasciandomi dietro, pensieri tristi e canzoni liete,
e salendo sul tuo scoglio più alto, torno
per guardare lontano, per placare la mia sete;

e come un faro in cerca di qualcuno da salvare,
protendo il mio petto verso te, mio splendido mare,
e sperando di poterlo riabbracciare,
mi tuffo dentro te, l’unico ora, a potermi consolare.

Il tuo abbraccio è caldo e non sono più sola,
nel lambire il mio corpo un brivido mi pervade,
e sento ancora lui vicino, mentre una nuvola bianca,
il mio sguardo dissuade.

Tornando a riva, mi sento rinata,
coi capelli di sale e la pelle ambrata,
e protendo ancora la mia mano sui tuoi orizzonti,
sui miei segreti, su ciò che a nessuno racconti,
e i miei occhi si perdono in te mio mare,
perché so che un giorno, me lo farai davvero riabbracciare.

(Ha partecipato al Concorso artistico-letterario "Inula" indetto per iniziativa dell’associazione Tuttinsieme, con il patrocinio del Comune di Camerota)


(Tema: Echi dal mare - Max / caratteri)

Correva l'anno 1966

Mia madre era ogni giorno più preoccupata e mio padre sempre più provato. Scherzando diceva che i reni gli avevano fatto una cattiva riuscita e quando tornava dalla dialisi, sembrava che lo avessero rivoltato come un calzino. Io non sapevo cosa fare, mi sentivo impotente ed incapace anche di una buona parola.
Avevo poco più di vent’anni, lavoravo in un bar e una mattina, mentre preparavo il solito cappuccio a Carlo, lessi sul giornale accanto a lui:”… effettuato con successo il primo trapianto di rene da vivente ad opera del Chirurgo Aldo De Maria…”.
Un brivido.
Non so come, ma riuscii ad avere un contatto per risolvere il caso di mio padre, mi sentivo felice, potevo salvarlo. Finalmente mi contattarono per gli esami di rito, tornai a casa toccando quasi in soffitto con le dita per la felicità, decisi di dirlo prima a mamma.
Quando la vidi sbiancare capii che qualcosa non andava. Piangendo mi supplicò di non dire nulla, ché non avrei mai potuto essere compatibile; ma io non mi arresi!


(Tema: L'inganno - Max 1000 caratteri)

MILD

Come ogni mattina sono di fronte a questa enorme tazza. Mamma non lo vuole capire, ma anche oggi l’unico che berrà il latte, sarà il lavandino. A me non piace, preferirei un succo.
Vado per prendere la tazza, non c’è, ma trovo il succo. 
Fico! Sono di nuovo dentro una di quelle bolle, dove tutto mi è permesso.
Uno schiocco di dita e sono vestito, saluto mamma, saltello leggero fuori di casa, alla faccia della gravità. Piroettando mi ritrovo davanti a scuola, vedo gli altri entrare, tristi. Io no, io vado verso la libertà.
Mi concentro e in un nonnulla sono al boschetto, il sole mi schiaffeggia la faccia e sorrido inebetito.
All’improvviso tutto si fa cupo, provo ad oppormi, ma non riesco più a pilotare i miei pensieri, il boschetto diventa un intricato e gelido groviglio di rovi e mi sento perso. Grido, ma niente, qualcosa mi è sfuggito di mano, sono solo ed impaurito, c’è anche una sirena in lontananza che mi inquieta.
- Francy, ma ti muovi, non senti la sveglia?! –
Fortuna mamma.


(Tema: Un personaggio storico - Max 1000 caratteri)

Il sapore dell’irriverenza

Credo che il momento sia giunto Chavigny , per tutti arriva! 
La mia vita di studioso e scienziato, è stata piena di interessi, di studio e di traguardi raggiunti, ma anche di sconfitte e di domande senza risposte. In questo mondo, circondato da menti barbare, il mio sapere non mi ha risparmiato nulla e ho sempre dovuto rifuggire innumerevoli pericoli, non ultimo, quello di finire arso. 
I miei tormenti, hanno preso tutti forma proprio qui dentro, in questo studio. I miei vaticini, a cui credo fermamente, mi hanno fatto conoscere ciò che mai uomo di questi tempi potrà nemmeno immaginare, ma sento ormai vicina la fine.
Mi chiedo solo cosa questa povera umanità dovrà aspettarsi. Sono giorni ormai, che ho un tremendo presagio, e vedo esseri tondeggianti che invaderanno le menti dei piccoli uomini, con le loro calosce salteranno nelle pozzanghere di fango e grugniranno e rideranno striduli.
Questa ultima visione mi sfibra, ora lasciami solo Chavigny, domani non mi troverai vivo all’alba!


(Tema: Un personaggio storico - Max 1000 caratteri)

Le tre bestie della mia vita.


(I protagonisti si raccontano in prima persona)

Cap. I

Oggi - Il ritorno

Per anni avevo desiderato allontanarmi dal paese, alla ricerca di una carriera e di quel successo, che mi avrebbero potuta riscattare. Normalmente tornavo a casa per le festività, giusto qualche giorno, sempre di fretta, sempre tirata. Avevo imparato che essere sfuggenti fa diventare più desiderabili, di certo ammanta di un alone di mistero, e gli occhi della piccola gente di paese ti iniziano a seguire e il loro brusio a testa china, ti fa sentire che finalmente sei qualcuno.
Questa volta la mia presenza qui non è per una festa, forse dovrò anche rimanere un po’ più di qualche giorno. Voglio stare vicina a mia madre, adesso più che mai ne ha bisogno, spero solo che questo casino si risolva presto.
Mentre l’aspetto fuori dal “Frutta e verdura”, il richiamo dell’organo di Don Marco si fa sentire, lo intravedo dalla vetrata del rosone e decido di entrare.
Questo posto mi fa sempre un certo effetto, esattamente come da bambina. La solita porta a molla che stride, il rimbombare di ogni piccolo rumore, che ti mette a disagio e ti fa rannicchiare in un angoletto buoi, per non parlare della semioscurità delle candele, della puzza di incenso, dei banchi tarlati e delle gocce di cera sul pavimento, sotto la statua di San Giuseppe.
Questo posto è sempre sembrato a tutti un antro scuro, capace di fagocitarti da un momento all’altro. Il parroco precedente poi, claudicante ed orbo da un occhio, lo rendeva ancora più tenebroso; solo un’anima limpida sarebbe riuscita nell’impresa di rieducare i giovani del paese, a frequentarlo e a riempirlo di vita, solo Don Marco era riuscito a farlo e nel giro di qualche anno era diventato un punto di ritrovo. Evidentemente però, quello che era successo due mesi fa, aveva fatto ripiombare tutto così com’era prima, anzi, anche peggio e sinceramente non ne ero affatto stupita.
 - Ciao Valeria!
 - Ciao Don… ti ho sentito suonare, non ho resistito! Ho accompagnato mamma a fare la spesa. È molto provata, come lo sarai anche tu… credo.
 - Il suono dell’organo aiuta a distendermi e a non pensare, se non alla magnificenza di Nostro Signore. Vedrai che la fede ci aiuterà tutti: tua madre, me e anche te Valeria. Non sai quante persone sono rimaste sconvolte da quel 3 settembre e comunque lo vedi da sola il risultato, la paura sta facendo chiudere tutti a riccio. I ragazzi non vengono nemmeno più per le prove dello spettacolo che volevamo inscenare a fine anno!
La delusione, lo sconforto, l’amarezza gonfiavano gli occhi di Don Marco, poi un sospiro, una mano calda sulla spalla e il suo solito dolce sorriso di conforto.
Lo sapevo che ce l’avremmo fatta, che gli occhi gonfi di mia madre, si sarebbero illuminati vedendo ritornare quella matta di Monica, che come tutte le volte faceva un sorrisetto e un’alzata di spalle, come se sparire per dei mesi senza farsi sentire, fosse normale. Questa volta però era diverso; mia sorella era strana sì, ma non falsa, né bugiarda e quando decideva di partire, preparava tutto il necessario e di certo non si inventava scuse per uscire di casa, non ne aveva bisogno. Sta volta sì che era davvero tutto diverso. Lei non si trovava ancora, ma in compenso Don Marco aveva trovato quel poveretto di Francesco.

Cap. II

2 mesi prima – Un giorno migliore

- 3 settembre! Una bella giornata di sole tesoro. Qui sul calendario c’è scritto “Prove spettacolo” ore 10:00.
- Lo so mamma, anzi è tardi. Mi fiondo da Don Marco, ho anche promesso a Francesco di andarlo a prendere. Vado… ciao!
- Ma non è prest…
Nemmeno riuscii a finire, mi diede di corsa il solito bacio sulla guancia e l’inconfondibile odore della sua pelle mi raggiunse ed avvolse. Una fragranza dolce e piccante allo stesso tempo, comprata non so dove. Monica era finalmente cambiata, più posata, dolce, riflessiva. Il rapporto con Francesco era stato decisivo nella sua vita e sicuramente i mie occhi di madre, capivano benissimo che non si trattava solo di amicizia, ma di qualcosa di ben più profondo.
Mentre pensavo alla serenità ritrovata di mia figlia, sorrisi e mi sentii leggera. Monica ora era libera, le sue paure e il mostro che fin da piccola la perseguitava, ormai erano ricordi lontani!

A casa di Francesco

- Ciao Moni…
- Dai Sali, che andiamo alle prove.
- Non è un po’ prestino?! Guarda che arriviamo in anticipo di almeno 2 ore.
- Zitto e sali, prima ti porto in un posto.
Il sorriso radioso di Monica dentro la sua scassatissima panda, la rendeva la ragazza più bella del mondo. Io ero già stracotto di lei, dopo averla intravista una volta in chiesa. Frequentavo Don Marco da poco, perché da poco mi ero trasferito, ero un discreto catechista, mi piaceva stare in compagnia dei ragazzini, mi piaceva il teatro e soprattutto mi piaceva lei.
Monica lo sapeva e per fortuna non era mai stata una di quelle tipe troppo preziose, si era avvicinata subito, mi aveva messo un braccio intorno alle spalle in segno di amicizia ed io l’avevo amata.
La panda era veramente troppo scassata, il finestrino lato passeggero non chiudeva bene ed i ricci, lunghi e neri, mi finivano sempre sulla faccia, un po’ negli occhi, un po’ in bocca, e Monica se la rideva come una pazza e le sue risate mi mandavano in estasi.
Sinceramente non avevo nemmeno guardato dove stava andando, ero troppo concentrato ad ammirarla ridere e prendermi in giro. Accostò, scese, con due balzi arrivò alla mia portiera e mi tirò fuori come un’alice dalla scatoletta. Era un piccolo bosco a pochi chilometri dal paese, un posto relativamente isolato. Mi trascinò prendendomi per mano, e dopo 5 – 6 file di alberi iniziò una piccola radura, un fazzoletto di erba fresca, pieno di fiori.
Monica si buttò pancia all’aria per terra, i suoi lunghi capelli castani e lucenti, furono trafitti da mille margherite.
- Dai Fra, vieni…
- Ma…
- Pensavi che non mi sarei ricordata del tuo compleanno?! Bhè quest’anno il tuo regalo sono io.
Non sapevo nemmeno da dove incominciare, ma Monica rese quell’ora, la più bella della mia vita.
I suoi baci umidi, i suoi sorrisi, le sue dita sulla schiena, il suo odore…

In chiesa 1 ora e mezza dopo

Don Marco stava facendo il solito giro di innaffiatoio, per dar da bere alle piante in chiesa. Guardò l’orologio, velocemente si genuflesse, uscì, e si diresse verso la sala grande dove i ragazzi dovevano fare le prove dello spettacolo. Affrettò il passo perché sicuramente Monica e Francesco erano lì da un pezzo. La devozione di quei due lo rendeva felice, si aiutavano, si volevano bene, si dedicavano ai ragazzi ed al teatro con un trasporto mai visto prima. Erano belli!
Trovò la porta della sala chiusa de dentro, strano. Chiamò i ragazzi ma nessuno rispose, decise di passare dall’entrata principale, facendo il giro dal giardino.
Il sole scaldava l’aria, il cinguettio degli uccelli era dolce. Quando aprì la porta una corrente d’aria gli schiaffeggiò il viso, portando con sé un odore crudo, di acido e ferro. Quello che vide fu sconvolgente.
Francesco in una pozza di sangue, con una voragine sul collo, grande quanto un pugno. Inutile sentirgli il polso.
I soccorsi arrivarono subito, la Polizia di lì a poco iniziò a fare i primi rilievi.

Cap. III

Il Commissario e il fido Paoletti

Con il solito tocco poco delicato, Paoletti bussò alla porta.
Non risposi subito, ma mi ributtai sulla poltrona girevole sospirando, come chi sa di non poter sfuggire al proprio destino.
Ero appena arrivato, con alle spalle una notte in bianco passata dietro un fantomatico stalker, che probabilmente era solo un’invenzione di quella Wanda. Credo che infondo la stalker fosse lei, che non ci fosse nessun pazzo in paese e che io ero in serio pericolo, quella donna era decisamente in preda a delle strane voglie ed era chiaro che mi aveva messo gli occhi addosso. Speravo solo che non fosse ancora lei!
Paoletti bussò di nuovo, ma il suo tocco ora, oltre ad essere poco delicato era anche fremente, conoscendolo c’era qualcosa di grosso.
- Aventi, entra. Che succede?!
- Hanno ammazzato uno!
- Ma che cavolo dici, che qui non succede mai niente!
- Guarda che non scherzo… ha chiamato il Parroco, l’ha trovato lui.
- Don Marco?!
- Si, si.
No, decisamente non era il solito scherzo, e comunque il primo aprile era passato da un pezzo. Salimmo in macchina e con una sgommata partii, Paoletti aggrappato alla maniglia, io con l’idea di dover forse vedere del sangue, che da sempre mi faceva schifo e mi faceva dare di stomaco. La cosa ironica è che quello che trovammo andava ben oltre ogni mia immaginazione.

Il luogo del ritrovamento

C’era già un discreto manipolo di curiosi nei pressi del cortile dietro la chiesa, fortunatamente la zona era stata totalmente transennata. Seduto dentro l’ambulanza c’era Don Marco, a cui gli operatori stavano misurando la pressione, di sicuro quel poveretto era sconvolto. Sul posto c’era anche il medico legale, lo avvicinai e le prime informazioni che mi diede furono sconcertanti.
Il ragazzo era presumibilmente­ morto dissanguato, sui numerosi graffi che aveva lungo le braccia, qualcuno aveva versato dell’acido cloridrico che li aveva quasi completamente cancellati, sciogliendo la pelle e i tessuti sottostanti. La ferita sul collo, che poi sarebbe risultata quella mortale, era stata realizzata da mani non esperte, e comunque la parte mancante non era stata trovata. Secondo il medico legale quella specie di cratere sul collo, era stato fatto con un oggetto tagliente. Forse il ragazzo prima era stato accoltellato alla gola e poi qualcuno aveva asportato parte della stessa, forse un feticcio o un depistaggio.
- Sarò più preciso ad autopsia finita Commissario, per ora è tutto molto nebuloso, e sicuramente non ricordo di aver mai visto una cosa del genere.
- Va bene. Mi faccia sapere.
I miei occhi si persero nel vuoto per un attimo… che inizio di settembre di merda, pensai. Avessi potuto decidere, di sicuro avrei preferito continuare a farmi rompere le palle da Wanda, piuttosto che vedere quel macello! Mentre questo mi passava per la testa, mi sentii toccare la spalla dalla mano calda di Marco. Era un vecchio amico ed un uomo veramente bello, dolce ed affabile e sicuramente, prima di diventare prete, aveva avuto anche delle storie, poi... la chiamata…
- Fabio…
- Marco, mi spiace per quanto successo. Lo so che forse preferiresti in un altro momento ma, avrei bisogno di farti qualche domanda.
- Certo.
- Ti faccio accompagnare in commissariato, io arrivo subito.


Cap. IV

Il commissario e i testimoni

Don Marco racconta

- Allora Marco, spiegami un attimo come sono andate le cose.
Tirai un sospiro, cercando di raccogliere tutte le idee. Gli spiegai che avevo ritrovato Francesco verso le 10:00, che non avevo ovviamente toccato nulla ed che chiamai subito i soccorsi e la Polizia. Poi il resto lo sapeva da solo.
Gli raccontai del rapporto tra Francesco e Monica, del loro volersi bene, delle loro passioni in comune e di come si dedicavano agli altri ragazzi della parrocchia, organizzando piccoli spettacoli teatrali. Nulla di strano, niente che facesse presagire una fine così orribile. Spiegai che nessuno avrebbe potuto voler male né a lui né a Monica. Erano due anime pure ed innocenti. Lui poi era stato provato dalla vita, giovanissimo e già orfano dei genitori, senza nessun altro che gli volesse bene. Speravo con tutto il cuore che almeno lei fosse viva.

La madre si dispera

- Signora, cosa ricorda di stamattina?
Non riuscivo a togliermi dalla testa il rumore assordante del vuoto che aveva lasciato nella mia testa quella frase “… sua figlia è sparita e Francesco e stato ucciso…”.
- Guardi Commissario, mia figlia è uscita come sempre verso le 10:00, poco prima, con la sua borsa, il portafogli con i documenti e senza cellulare perché non lo possiede. Mi ha detto che sarebbe passata a prendere Francesco e poi sarebbero andati in Parrocchia per le prove dello spettacolo. Non ho idea di cosa possa essere successo, ma ho paura…
Implorai il Commissario di trovare mia figlia.

La sorella “Crudelia”

- Mi ascolti Commissario io sinceramente sono corsa subito quando ho saputo, ma non avevo grandi rapporti con mia sorella, se si aspetta di sapere qualche confidenza su lei e Francesco, credo che non potrò aiutarla. Quello che le posso dire è che Monica è sempre stata strana, una ribelle, pazza scatenata.
Il Commissario mi guardò, e sollevando il sopracciglio disse:
- Non mi sembra che le faccia molto male parlare così di sua sorella… in realtà non mi sembra nemmeno troppo preoccupata!
Infatti era così, infondo Monica ed io avevamo in comune solo la madre e il cognome di un padre che ormai non c’era più, morto come il più sciocco degli sciocchi, pulendo il fucile. Io ero andata a fare il bagno al fiume, quando mi vennero a chiamare non ci potevo credere. La mia più grande fortuna fu la vicinanza di Don Marco, poi riuscii ad andare fuori da quel maledetto paese, che era stato da sempre fonte di sventura e sofferenza per me.

Nonostante i miei sforzi, nulla emerse di più dalle loro bocche, erano però state le parole piene di rancore e risentimento della sorella di Monica a colpirmi. Non parliamo poi degli amici, a parte il racconto squinternato di due gemelle tredicenni. Una mi disse di aver visto Monica e Francesco con la panda, dirigersi verso le 8:00 al boschetto, l’altra sosteneva di aver visto Monica in motorino andare sempre verso il boschetto, ma alle 8:15 circa. A parte che a quell’ora i due ragazzi erano a casa, poi comunque Monica non poteva mica avere il dono dell’ubiquità.
Sto cavolo di paesello poi, non ci aiutava nelle indagini. Niente telecamere di sorveglianza, pochi cellulari. Monica non lo possedeva e quello di Francesco era stato trovato a casa sua, probabilmente dimenticato nella fretta di uscire.

Cap. V

2 mesi dopo – All’uscita dal “Frutta e verdura”

- Valeria, sei qui!
- Mamma, scusami, sono venuta un attimo a fare due parole con Don Marco, avevo bisogno di un conforto!
- Non ti preoccupare, anche io mi fermo un attimo per due preghiere…
- Va bene mamma, fai pure con calma, io ti aspetto fuori… ciao Don.
Don Marco si avvicinò e si mise in ginocchio accanto a me. Avevo le mani giunte davanti al viso, una lacrima mi scappò giù, bagnando il banco, la asciugai col palmo della mano.
Non sapevo se quello che avevo fatto fosse la cosa più giusta, non sapevo se Dio mi avrebbe mai perdonato, ma sapevo di poter contare su Don Marco. Il suo aiuto non mi sarebbe mai mancato, la sua voce mi avrebbe sempre rassicurata, il suo amore, anche se diverso, non mi avrebbe mai abbandonata.
Io e Marco ci conoscevamo da tanto, eravamo cresciuti praticamente insieme e prima che si facesse prete, eravamo stati una cosa sola. Pensavo veramente che sarebbe stato per sempre, invece poi partì per andare in seminario. Quando ci rincontrammo, ero già sposata ed avevo Monica.
Dopo che mio marito morì, ci rimase sempre accanto. Sicuramente sarebbe stato un ottimo padre, se solo avesse potuto!
Uno squillo di cellulare mi distolse dai miei pensieri, era il commissario che doveva farmi altre domande.
Mi girai verso Marco che quasi implorandomi disse:
- Per quanto vuoi continuare ancora così?! Per favore… ti accompagno.
Strizzai gli occhi, scossi la testa, sentivo la mia mano calda fra le sue. Avevo ancora Valeria da proteggere.
Al sentire lo squillo del telefono in canonica mi alzai e feci per uscire, Don Marco andò a rispondere, era Fabio.

Cap. VI

Il giorno prima in commissariato – I conti non tornano

- Paoletti qua le cose non quadrano tanto. Il medico legale dice che il corpo è stato spostato, quindi Francesco è stato ammazzato altrove, all’aperto si presume, viste le macchie di erba sui vestiti e i petali di margherita ritrovati fra i capelli. Sappiamo che questo è vero ed è compatibile con le tracce ematiche abbondanti ritrovate al boschetto. La morte risalirebbe a circa due ore prima del ritrovamento, e così si spiegherebbe la quantità esigua, dice lui, di sangue attorno al cadavere, ma allo stesso tempo sconvolgerebbe gli orari dei testimoni principali: il Don e la madre.

Paoletti si grattava la testa, arricciando il naso. Aveva il referto del medico legale in mano e sparsi sulla scrivania i verbali delle varie testimonianze.
La ragazza ancora non si trovava, la macchina si era volatilizzata, nessuno aveva né visto né sentito niente allora e neppure nelle settimane a seguire. Sembrava di essere in un vicolo cieco.

Vidi Paoletti, affannarsi per cercare qualcosa nella tasca della giacca. Dall’altra parte del cellulare la figlia frignava per l’ennesimo torto dell’amichetta.
- Tesoro di papà non te la prendere, lasciala stare, lei e i suoi commenti snob. Non pensare che bastino solo dei bei vestiti per essere una persona perbene. Tesò, adesso papà ti deve lasciare, poi ne riparliamo sta sera a casa, ok?! Ciao…

Si scusò con me, che infondo non avendo figli, non potevo capire cosa significasse l’attaccamento figliare. In compenso questo mi era servito da stimolo, avevo avuto un’illuminazione e con fermezza chiesi a Paoletti di fare una verifica. Gli feci chiamare le due gemelle ritenute inizialmente testimoni poco attendibili.
Il punto fondamentale era per me capire, se le due, avessero visto bene in faccia Monica mentre transitava, la risposta non fu positiva per entrambe. Il motorino visto era sì di Monica, ma il casco integrale non permise alla ragazzetta di scorgerne il viso.
- Paoletti, verifichiamo un attimino, ripartiamo dalla deposizione delle gemelle e ricostruiamo un po’ che cavolo è successo quella mattina. Facciamo tutti i rilievi del caso anche sul motorino, forse salta fuori qualcosa che ci siamo persi.

Il giorno dopo in commissariato – L’ora dei conti

- Paoletti hai chiamato Don Marco e la madre di Monica?
- Sì, stanno arrivando.
Sospettavo nei giorni precedenti che ci fosse stato qualcosa di strano, non avevo ben capito le dinamiche, ma ero ormai più che convinto che la madre di Monica sapesse più di quanto ci aveva detto, volevo farle confessare tutto ciò che sapeva.
Avevo lasciato la porta dell’ufficio semiaperta, in modo da accorgermi dell’arrivo dei due, dopo poco fece capolino solo Marco, mi disse che la signora era un attimo andata in bagno, non si sentiva molto bene, e forse era comprensibile.
Lo feci accomodare, sembrava tranquillo, ma le sue mani lasciavano intendere che così non era.
Aspettammo un po’, poi mi iniziai a preoccupare, la donna non arrivava, forse un malore?!
Mandai subito qualcuno a verificare, il bagno era deserto. Ordinai con i denti stretti di trovarla subito…

Per le scale del commissariato – Una fuga senza senso

- Mamma!
- Valeria!
- Che ci fai qui?! Ci sono novità?
- No, ho solo accompagnato Don Marco, ma adesso vado che ho da fare…
Uno scalpiccio velocissimo ed affannato per le scale, segno che qualcuno avesse fretta, mi fece alzare gli occhi. Era Paoletti che prese mia madre per un braccio e le chiese dove stesse andando così di orsa. Lei abbassò gli occhi, forse veramente sapeva molto più di ciò che aveva sempre raccontato a tutti, anche a me. Forse era arrivato il momento per lei, di dare una spiegazione.
Paoletti la riportò al piano di sopra, la fece entrare dal Commissario ed allo stesso tempo uscì Don Marco, che si mise seduto acconto a me, in una sedia sgangherata lungo il corridoio. Mi prese la mano. Non potevamo fare altro che aspettare e pregare, per mamma, per Monica, per quel poveretto di Francesco.
Dopo qualche ora mia madre uscì a testa bassa, la stavano portando via, aveva ucciso lei Francesco, aveva confessato!
Don Marco si alzò di scatto, le andò incontro e prendendole le mani, la chiese:
- Perché?
- Non ti ho tradito Marco, non lo farei mai…

Io non capivo niente. Un morto, mia sorella sparita, mia madre reo confessa di un delitto atroce che parlava di tradimento con Don Marco… che cavolo stavano dicendo?!
Fissai atterrita Don Marco, quasi celasse una verità ancor più atroce di quella già svelata da mia madre. Volevo sapere a questo punto cosa era successo, volevo sapere cosa quei due stavano dicendo. Sentivo lo smarrimento trasformarsi in rabbia, di chi per la prima volta capisce di essere solo stato raggirato, preso pesantemente in giro dalle persone più vicine, tutta la vita.
Non ci fu però bisogno di andare oltre, Don Marco mi disse dolcemente che ormai era tutto finito e che dovevo stare tranquilla, ma forse per me il brutto doveva ancora arrivare.

Cap. VII

Sei mesi dopo – La fine penosa ed il riscatto?!

Sono in viaggio verso Milano, la mia carriera sta andando a gonfie vele e credo proprio di meritarmelo. Sento il cellulare squillare, metto in vivavoce.
- Buongiorno commissario!
- Dai Vale, lascia perdere… piuttosto quando torni? Ho un regalino per te…
- In serata dovrei tornare e magari ti faccio io un regalino, che dici?
Sì, è proprio lui, il buon Fabio, il Commissario. Abbiamo una relazione aperta, ci vogliamo bene senza troppi vincoli, non credo di essere pronta a nulla dopo quello che è successo.
Fabio era stato molto bravo, credette solo in parte alla confessione di mia madre, e aveva ragione a farlo perché molto aveva fatto anche il Don.

Quel 3 settembre la panda scalcinata portò Monica e Francesco al boschetto, volevano stare solo un po’ insieme, forse avrebbero fatto l’amore, ma qualcosa scattò nella testa di Monica, che iniziò a graffiare le braccia di Francesco, fino a farlo sanguinare.
Mia madre nel frattempo stava arrivando in motorino, dopo che Monica uscì di casa la mattina, notò che mancava un coltello da cucina. Lì per lì non ci fece caso, ma poi sospettò. Inforcò il motorino e subito andò al boschetto, Monica amava quel posto e sicuramente erano là.
Arrivando, vide Francesco che stava cercando di far calmare Monica, era spaventato, sanguinante.
Purtroppo non riuscì a fermare la coltellata che colpì al collo il ragazzo, che ricadde su un fianco. Mia sorella si girò di scatto, ma fu raggiunta da un colpo in testa e svenne. Mia madre la voleva solo stordire, per difendersi e difenderla. Poi decise di caricare tutti e due in macchina. Francesco nel bagagliaio. Lo scaricò in canonica dove cercò di inscenare un evento, un qualcosa finito male, un gran pasticcio insomma. L’acido lo aveva usato solo per cercare di creare un diversivo, così come per il buco sul collo… sperava di deviare le indagini, creando degli elementi da killer seriale. Che cretinata!
Nel frattempo Monica non rinveniva e all’arrivo di Don Marco gli chiese aiuto, proprio come tanti anni prima.
Mia sorella era morta, il colpo alla testa non l’aveva solo stordita, così decisero di portarla nel seminterrato della canonica e poi di chiamare i soccorsi. Nel frattempo mia madre ripartiva per il boschetto e recuperava il motorino poi, subito dopo chiudeva la vecchia panda in un fienile abbandonato, dove poi fu fatta ritrovare.
Monica, qualche giorno dopo, fu sciolta con l’acido, insieme col brandello di collo di Francesco.

Don Marco completò di sua sponte, la versione di mia madre, che inizialmente si era addossata tutta la colpa per l’omicidio di Francesco, senza tirarlo in ballo. Subito dopo la sua confessione, entrò nell’ufficio di Fabio e completò il racconto.

Con mio grande disgusto, scoprii che Don Marco era il vero padre di Monica, mia madre si sposò solo per coprire quella vergogna e diede d’intendere a mio padre che il bambino fosse suo.
L’incidente poi che gli capitò col fucile da caccia era una messa in scena.
Quel giorno Monica, nonostante fosse una ragazzetta, salì in braccio a mio padre, voleva giocare. Lo morse sul collo fino a farlo sanguinare, lui urlando, per staccarsela di dosso, la colpì. Mia madre stava cucinando ed accorse subito; non riuscendo a farlo calmare, sentendo in continuazione che inveiva contro la figlia e minacciava di farla rinchiudere, lo accoltellò con un fendente al collo, dritto sotto il mento.
Don Marco dichiarò di essere presente, quel giorno, quando successe l’incidente col fucile e mio padre rimase ucciso. In realtà non era così, arrivò solo dopo e, per eliminare i segni della coltellata, trovò l’escamotage della fucilata, con cui praticamente, gli fece esplodere la testa.

Mia sorella era solo un’anima in pena, chissà quante altre volte avrà avuto i suoi raptus.
Mia madre non si preoccupava troppo delle sue assenze e sapeva che sarebbe tornata, perché in realtà Monica non era una giramondo, ma si sottoponeva periodicamente a delle cure. In casa di mia madre ho trovato dei referti di un centro psichiatrico.
Monica era affetta da un disturbo mentale, una psicopatia chiamata licantropia clinica e pur di difenderla, le uniche persone che si erano veramente trasformate in bestie, erano state i suoi genitori.

(Ha partecipato al Concorso letterario "the Dark Side of the Woman" indetto dal blog Donne  Difettose)

Regolamento del concorso

(Tema: Racconto inedito genere giallo, noir, thriller o hard boiled - Min 8.000 Max 25.000 caratteri)